Quando parliamo di costruzioni, il tema del rischio non è più un argomento marginale: è al centro del dibattito tecnico, politico e giudiziario. Nella società di oggi, sempre più complessa e in continua evoluzione, diventa inevitabile interrogarsi su come percepiamo la sicurezza e su quali responsabilità attribuiamo a chi progetta, costruisce e controlla le opere.
Il punto fondamentale è che il rischio zero non esiste. Ogni opera porta con sé una certa probabilità di accadimento di eventi avversi, e il compito di chi lavora nel settore non è eliminare il rischio, ma ridurlo e gestirlo al meglio. Per questo si parla di mitigazione del rischio.
Le normative attuali, però, spesso parlano di “perfetta sicurezza”, un concetto ormai superato. L’ingegneria ragiona in termini di affidabilità e probabilità, mentre la magistratura tende a vedere la sicurezza in chiave deterministica, come se fosse possibile azzerare ogni incertezza. Serve quindi un chiarimento legislativo: riconoscere che il rischio non è eliminabile, ma può e deve essere gestito secondo criteri tecnici condivisi e socialmente accettabili.
Un passo importante potrebbe essere introdurre un sistema normativo che fissi livelli minimi di affidabilità delle costruzioni in relazione al rischio, piuttosto che illudersi di garantire stabilità assoluta. Allo stesso modo, la completa digitalizzazione del ciclo di vita degli edifici, attraverso strumenti come il Digital Building Logbook, potrebbe migliorare la trasparenza e la gestione.
Ma la questione non è solo tecnica. Il rischio diventa “politico” nel momento in cui le persone lo percepiscono, spesso solo a seguito di un incidente. Ed è qui che entra in gioco la politica: non basta che i tecnici producano dati e modelli, serve che le istituzioni definiscano quali rischi la società è disposta ad accettare e come questi vadano regolati.


